Gli occhiali di Clotilde: Chtulucene di Donna Haraway

Le funambole presentano:

Gli occhiali di Clotilde

Rubrica di recensioni a cura di Clotilde Barbarulli

Donna Haraway Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero 2019.
Il libro si riferisce all’arte di sopravvivere nel disagio e nelle rovine, quindi importante nell’oggi: lo Chthulucene, infatti, il tempo dell’essere terrestre con altri terrestri, nella solidarietà multispecie, ci invita a con-vivere. Si riferisce ai “variegati e tentacolari poteri e forze e cose radunati per tutta la terra”, e non al mostro creato dallo scrittore di fantascienza H.P. Lovecraft: a differenza del termine Antropocene – che non rende conto della complessità eterogenea del mondo – richiama le concatenazioni fra umano, altro da umano e humus. L’antropologa femminista vicina a Donna Haraway, Anna Tsing, ne ha reso l’immagine con la metafora del fungo, perché i miceli dei funghi si sviluppano per chilometri e chilometri al di sotto delle foreste, creando insospettate alleanze con il mondo organico e inorganico, anche se si vedono solo i corpi fruttiferi. L’invito è quello a considerare il pianeta Terra come un sistema iper-connesso, formato da più soggetti, umani e non.
La narrativa, in particolare la fantascienza, offre un veicolo prezioso per immaginare un mondo diverso: nell’ultimo capitolo l’autrice ci regala cinque storie immaginarie, invitando a generare “parentele, non bambini!” (making kin), parentele fuori dagli schemi della famiglia e della trasmissione genetica, parentele che si possono inventare in ogni momento della vita. making kin ha irritato alcune femministe, dice Donna Haraway in un’intervista, ma bisogna riflettere sulla giustizia riproduttiva, per vivere in un mondo a favore dei bambini non della natalità.
Spesso la filosofa della scienza può apparire di difficile lettura, ma, se ci si lascia trascinare dalle sue riflessioni e in particolare dalle fabule speculative sui bambini dei compost, storie multispecie solidali, contro le distopie dell’oggi, non possiamo non sentirci coinvolt*. Le sue Camille Stories – organismi composti, intergenetici e intersessuali- sono ambientate tra il 2025 (nascita della prima Camille) e il 2425 (morte della quinta Camille) e si svolgono attraverso cinque generazioni in una comunità che decide di vivere responsabilmente nel mondo. Quando una creatura nasce all’interno di una famiglia pluri-genitoriale, è abbinata ad un animale simbionte, che deve conoscere e proteggere per il resto della sua vita. L’ultima Camilla muore simbionte di un animale che non esiste più, la farfalla monarca, e il suo ruolo non è più quello di proteggere, ma di ricordare, riportare alla “pratica della memoria vitale”.
Scritte insieme ad altr* durante un workshop in Normandia nel 2013, le storie di Camille è per Haraway un esempio di racconto in grado di renderci capaci di immaginare un nuovo scenario terrestre inventando un non-finale nel portare avanti il gioco. Trovo intriganti queste narrazioni immaginifiche nell’intreccio tra libri per bambini, videogiochi, narrative varie, storie che raccontano altre storie, un immaginario che connette la tecnologia all’arte tessile indigena e a movimenti femministi radicali. E sono interessanti i riferimenti – fra i tanti – a Ursula Le Guin e Isabelle Stengers per orientare la navigazione e per segnalare che il pensiero errante può stabilire nessi, relazioni, associazioni che contribuiscono appunto ad afferrare l’ orrore del presente non per addomesticarlo, ma per superarlo in una prospettiva di futuro possibile. Nel Convegno organizzato nel 2017 al Giardino dei Ciliegi, Fare mondo: poetica del futuro dimenticato, riprendendo Ursula Le Guin e Donna Haraway, ricordavamo come in tempi lontani fuori dal racconto aggressivo degli uomini nella Storia, le donne si sono inventate una sporta — zucca, conchiglia, rete, sacco, o altro – così da poter raccogliere e raccontare una storia naturalculturale, non narrata, non eroica, piena di gente qualunque, di perdite, di trasformazioni per un futuro condiviso.
Per questo mi appare significativo il nesso del pensare-insieme, scrivere-insieme, criticare-insieme, praticandolo alla confluenza di posizioni teoriche, lotte ambientaliste e femministe e di minoranze etniche minacciate, suscitando legami, aprendo altre vie di esplorazione che prevedono nuove famiglie comunitarie, soggettività non polarizzate sessualmente, ibridazioni e legami simbiotici interspecie (making kin): una straordinaria cura della relazione stessa che testimonia, quanto per Haraway – e per tutt* noi – sia necessaria una grande dose di immaginazione e di visionarietà.
Nell’attuale momento del coronavirus, siamo post* di fronte al lutto, più che mai consapevoli di essere “creature mortali intrecciate in una miriade di incomplete configurazioni di luoghi, tempi, materia e significato”, e può aiutare la riflessione di Donna Haraway al riguardo, nell’invitare a con-piangere e a con-pensare: “Il lutto implica abitare una perdita e arrivare così … a riconoscere il modo in cui è cambiato il mondo e il modo in cui dobbiamo cambiare noi stessi e rinnovare i nostri rapporti, se vogliamo andare avanti … Tuttavia la realtà è che non c’è alcun modo di evitare il difficile lavoro culturale della riflessione sul lutto. Questo scenario non è in contrasto con l’azione pratica, anzi è il fondamento di qualsiasi risposta sostenibile e consapevole”. Il lavoro di cura si libera così dal legame oppressivo con la cultura patriarcale perché diventa prerogativa comune e richiede l’assunzione collettiva di responsabilità.
Isabella Pinto proprio pensando al possibile uso politico delle affermazioni di Donna Haraway ricorda l’occupazione del Teatro Valle di Roma nel 2011 caratterizzata da una partecipazione eterogenea, che ha fatto saltare alcune dicotomie tradizionali: dalla dicotomia casa/teatro, a quella di artista/fruitore, passando per quella di cittadino/immigrato e quella di umano/non-umano. La relazione di “cura” e “affetto” stabilitasi tra luogo fisico e persone durante i tre anni di occupazione, ha generato, a suo avviso, una inedita relazione tra umano e non-umano in una politica di affinità più che di identità che dava spazio al potere del narrare, nell’ospitare incontri ed eventi di vario genere.
Donna Haraway, che si sente in situazione di agio (casa/giardino e pensione), è preoccupata in particolare nell’attuale pandemia per chi è immigrat* e per chi ha problemi di lavoro, chiedendo di fare pressioni sugli Stati per politiche sociali. Pensando a questa nostra terra “danneggiata e ferita”, piena di rifugiati, umani e non, senza rifugio, spera – ed io con lei -che tutt* collaborino – senza sentirsi annientat* dall’impotenza di fronte alle rovine ma interconness* in una miriade di configurazioni – per con-divenire e con-fare verso futuri possibili, “mondi per cui vale la pena lottare”.
Clotilde Barbarulli

Fare mondo materiali e video di Donna Haraway: www.il giardinodeiciliegi.firenze.it
Isabella Pinto, in “IAPh-Italia”, 26/11/2019 http://www.iaphitalia.org/donna-haraway-e-la-lotta-del-teatro-valle-occupato-sulluso-politico-di-le-promesse-dei-mostri/
Donna Haraway intervista/video 15 maggio SALONELIBRO.IT

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