Gli occhiali di Clotilde: Occhi di grano e altri racconti di Paola Presciuttini

Le funambole presentano:

Gli occhiali di Clotilde

Rubrica di recensioni a cura di Clotilde Barbarulli

Paola Presciuttini, Occhi di grano e altri racconti, Meridiano zero 2019, pp. 206, euro 15,00

L’autrice ripubblica il suo primo libro, Occhi di grano, arricchito da ulteriori racconti: ricordo con simpatia la giovanissima Paola quando venne al Giardino dei Ciliegi – come rievoca nella prefazione – per frequentare un corso di scrittura con Dacia Maraini (1994). Ha continuato nel tempo a rappresentare – oltre a figure cancellate dalla Storia, come Trotula – gli emarginati, le “gabbie” in cui la società racchiude, in varie forme, chi destabilizza l’ordine delle cose.

Questa attenzione mi fa pensare a Anna Maria Ortese e alle sue pagine sui “poveri” che vengono umiliati, tanto più in un oggi in cui domina più che mai quel ‘nazismo’ che è una “concezione della vita come privilegio della razza economica, dell’economico come unica carta d’identità”, in un momento in cui le scelte del profitto e del libero marcato hanno contribuito a impoverire la sanità pubblica, come il coronavirus ha rivelato in modo eclatante.

In Presciuttini emergono emarginat* sia per la povertà sia per le dominanti visioni razziste, come un’africana “nera come la notte” che vive su una panchina della tramvia nonostante il “burian”: “una barbona ostinata e colorata” che se ne sta lì con le valigie ad aspettare che la figlia venga a prenderla e resiste al freddo “col potere della memoria”. Tutti ne parlano in rete e con il vento che viene dalla Siberia, tutte sembrano preoccuparsi, fra timori e luoghi comuni, ma lei non vuole muoversi. Ester – che solito naviga sui social senza prendere a cuore nessuna notizia – decide di agire e va a cercarla, ma si perde e quando arriva non la trova più: è stata ammazzata da un razzista (“Che male c’è a essere razzista?”) che, stufo di stare in una “città di smidollati”, poichè la “signora della panchina” non obbediva all’ordine di alzarsi, le ha sbattuto la testa sulla struttura di ferro e poi buttata sui binari. Ester da lontano non vede il cadavere ma, osservando la panchina vuota, avverte su facebook che è tutto a posto, la barbona alla fine si sarà riparata dal vento, qualcuno l’avrà convinta.

Per Clara Sereni – ugualmente attenta agli “ultimi”, a chi è considerato fuori dalla Storia – il mondo attuale ha tolto ogni valore al dolore, giocando sull’indifferenza e su immagini rassicuranti, anche se abbiamo guerre, disoccupazione, esclusione, povertà crescenti: misurarsi con la sofferenza (individuale e collettiva) significa, nella scrittura di Paola Presciuttini, “recuperare un senso etico del fare”.

Ma l’emarginazione è prodotta anche dall’eterosessualità obbligatoria con creature che devono nascondere orientamenti sessuali diversi dalla norma: così Giovanni Scalzi, uno scrupoloso e metodico impiegato di banca, ogni venerdì con una borsa va a trovare la madre, ormai mentalmente assente, ricoverata in una casa per anziani, aiuta le monache nella contabilità, poi con un taxi si reca in un locale particolare dove inizia la sua vita segreta diventando Luisa “vestita d’azzurro” che si dà a sconosciuti. “Ogni sabato mattina, Giovanni lavava e stirava Luisa e la rimetteva nel secondo cassetto dell’armadio, quello chiuso con la chiave”, per ritornare alle apparenze normalizzanti.

Le storie, che incrinano l’ordine delle cose, s’intrecciano con spunti biografici fra realtà e invenzione creativa. Così Marzia, in “Aroma amaro”, va a casa della sua campagna cui è morto il padre rendendosi utile nel fare il caffè, tanti caffè, alla fine è stanca e vorrebbe sedersi ma lì “non ha nessun ruolo”. Tuttavia scopre che la madre, turbata dalla visita dell’amante del marito, sa tutto della sua relazione con la figlia e la considera parte della famiglia. Può finalmente sedersi, sollevata: “gli amori segreti crescono a metà, come le piante lontano dal sole”.

Negli appunti finali, l’autrice, inseguendo gli andirivieni del ricordare, fra memorie d’infanzia, liti dei genitori, prime esperienze lesbiche, rievoca il periodo (1992) in cui – per lo sciopero dei tabaccai – sparirono le sigarette quando viveva in una soffitta a San Frediano: con lo sciopero dei tabacchi in un mondo “a fumetti senza fumetti”, capisce di essere dipendente dalle sigarette, dalle ‘sue’ sigarette, le Diana Rosse ed è pronta a tutto, con alcuni amici, per riuscire a trovarle, una specie di caccia al tesoro. Nel dare attenzione a situazioni marginali, aggiunge così “stralci” autobiografici, perché – come sottolinea – “più passa il tempo” e più sente di “assomigliare” a ogni personaggio narrato.

L’autobiografia è ormai una categoria instabile, mobile, permeabile: è il luogo dove l’io viene colto nella molteplicità di forme che, senza mai disporsi in un ordine preciso, manifestano una identità multipla e diversificata. Perché la memoria ha un rapporto paradossale con il passato: pretende di custodirlo mentre non fa altro che deformarlo, ma è la verità di chi scrive. E d’altra parte, come dice Ricoeur, “una memoria senza lacune sarebbe, per la coscienza desta, un fardello insopportabile”. Perciò ogni grafia del sé è specchio/ritratto di una donna che si rivela leggendosi/guardandosi. E in questo guardarsi, scrivere vuol forse dire per Paola Presciuttini tenersi ancorata alla realtà dando voce anche alle sofferenze ignorate dalla politica ufficiale, visibilità agli “spauracchi che la società rinchiude nello stigma del pregiudizio”, un modo di sottolineare la complessità del mondo suscitando interrogativi e problemi in chi legge.

Clotilde Barbarulli

 

Paul Ricœur, Ricordaredimenticare, perdonare. L’enigma del passato, 2004.

Anna Maria Ortese, Corpo celeste, 1997.

Clara Sereni, Taccuino di un’ultimista, 1998.

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