Gli occhiali di Clotilde: Kentuki di Samanta Schweblin

Le funambole presentano:

Gli occhiali di Clotilde

Rubrica di recensioni a cura di Clotilde Barbarulli

Vi piacerebbe avere per casa animaletti di peluche dotati di web cam e connessioni wi-fi: coniglietti, corvi, topini, draghi pronti ad essere adottati da chi desideri accoglierli come un cucciolo vero? Vi piacerebbe spiare altr* o essere spiat*? Si può «essere kentuki» o «possedere un kentuki»: cioè guardare o essere guardat* grazie al rassicurante anonimato di una connessione, acquistabile per poche centinaia di euro. Chi sceglie di essere kentuki ha la possibilità di vedere cosa succede in altri luoghi, proprio grazie agli occhietti del peluche che nascondono una telecamera. L’autrice inventa i Kentuki che animano lo spazio della propria casa, fanno compagnia, suscitano curiosità, ma possono anche essere perturbanti e indurre paure e angoscia. Hanno delle rotelle con le quali possono muoversi, emettono piccoli versi e soprattutto hanno due telecamere al posto degli occhi. Attraverso questi peluche vengono stabilite infatti relazioni tra persone diverse, e situate nei luoghi più disparati, da Lima a Zagabria a Oaxaca.

All’apparenza possono ricordare un’evoluzione dei primi animaletti tecnologici famosi negli anni Novanta, i Tamagotchi , un gioco elettronico giapponese a forma di uovo con piccolo schermo: un simulatore di vita che permetteva di prendersi cura di un piccolo animale. Ebbe un grande successo forse colmando vuoti emotivi, ma quel compagno di vita virtuale poteva morire se non accudito, e, anche se sostituibile, finiva per creare ansia e ossessione.

I kentuki raccontati da Samanta Schweblin – argentina che vive a Berlino -ricordano più le dinamiche del Grande fratello (il Big Brother, il ‘fratello maggiore’) personaggio immaginario creato da George Orwell nel romanzo 1984, perché instaurano simulacri di relazione che finiscono per mettere a nudo le fragilità e le perversioni della natura umana nel quadro fallimentare dell’oggi liberista..

Tramite questi peluche si può dunque osservare a chilometri di distanza la vita di altr*, entrare nelle parti più intime della quotidianità, percepirne le ansie e le paure, oppure si può decidere di essere osservati. Questo è l’inquietante meccanismo narrativo utilizzato dalla scrittrice per descrivere una serie di relazioni tra esseri umani che per la maggior parte dei casi diventeranno nevrotiche e ossessive. Avremo così kentuki ribelli, suicidi e perfino torturati.

Un gruppo di ragazze che si divertono a bullizzare una compagna di classe per ricattarla, si trovano minacciate e perseguitate dal loro animaletto, un panda non ben fatto guidato non si sa da chi e da dove, finchè una di loro, Robin, esasperata non immobilizza con una scatola di legno il peluche, e, mentre si dibatte e strilla inutilmente, aspetta che si scarichi la batteria. Particolarmente inquietante è il racconto della giovane svedese Alina che – in una residenza per artisti in Messico – pensa di controllare il peluche corvo e di non dargli troppa importanza anche se è curiosa di sapere chi è la persona che lo manovra, così lo considera un animale domestico senza dargli troppe attenzioni, tuttavia alla fine scoprirà che il compagno artista attraverso il pupazzo l’ha ripresa tutti quei giorni nell’intimità e ora ne fa una performance mostrando le riprese al pubblico della galleria espositiva: vorrà solo fuggire, ma, di fronte alla sua immagine proiettata a numerose persone, si sente disperatamente impotente e come violentata. Prima si era chiesta: «Che cos’era questa stupida idea dei kentuki? Che cosa faceva tutta quella gente che si aggirava sui pavimenti delle case altrui, che guardava come l’altra metà del genere umano si lavava i denti? Perché non era tutto diverso? Perché nessuno ordiva complotti davvero tremendi con i kentuki? […] Perché le storie erano così piccole, così minuziosamente intime, meschine e prevedibili? Così disperatamente umane?».

Impietosa fotografia di un mondo con tutte le nevrosi e le dipendenze della contemporaneità fra solitudine e voyeurismo: la storia in parte fantascientifica è anche una metafora di come potrebbe finire in un futuro molto prossimo la vita di molt* di noi, perdendosi nei lati oscuri degli schermi digitali. Questa interessante e straniante constatazione del fallimento dell’ordine presente sul piano individuale e collettivo, sembra senza possibilità di soluzioni alternative. Ma il libro suggerisce un insieme di domande – come ha spiegato l’autrice – sui social e la tecnologia in generale, che in qualche modo recidono il corpo dalle relazioni, con il rischio di perdere anche ogni possibile comunicazione.

Shoshana Zuboff (Il capitalismo della sorveglianza) sottolinea l’odierno nuovo tipo di capitalismo, che lavora fornendo servizi gratuiti a miliardi di persone, in cambio della possibilità di monitorare dettagliatamente il comportamento degli utenti in rete anche senza il loro esplicito consenso. Bisogna quindi opporsi perché riduce a merce i comportamenti umani e attraverso il loro commercio consente arricchimenti straordinari (es. Google e Facebook). Ma non dimentichiamo che noi – al centro di una tale produzione – abbiamo anche la facoltà della libertà, cioè la capacità di produrre nuovi inizi e di rivendicare il diritto ad un futuro tecnologico senza dover subirne il dominio. Le autrici di Smagliature digitali, riflettendo da punti diversi sul rapporto tra corpi, generi e tecnologie (prodotto di un’organizzazione sociale che mira a riprodurre dinamiche di potere), intendono così smascherare i dispositivi di dominio e i loro complicati intrecci, tenendo insieme, con Donna Haraway, «uno sguardo critico e una riappropriazione sovversiva».

clotilde barbarulli

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss 2019.

Carlotta Cossutta, Valentina Greco, Arianna Mainardi, Stefania Voli, Smagliature digitali, Agenzia X 2018.

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